giovedì 10 luglio 2014

5. L’uomo alla ricerca della definizione di se stesso (Mercoledì, 10 Ottobre 1979 )

1. Nell’ultima riflessione del presente ciclo siamo giunti ad una conclusione introduttiva, tratta dalle parole del Libro della Genesi sulla creazione dell’uomo quale maschio e femmina. A queste parole, ossia al “principio”, si è riferito il Signore Gesù nel suo colloquio sull’indissolubilità del matrimonio (cf. Mt 19,3-9; Mc 10,1-12). Ma la conclusione, alla quale siamo pervenuti, non pone ancora fine alla serie delle nostre analisi. Dobbiamo infatti rileggere le narrazioni del primo e del secondo capitolo del Libro della Genesi in un contesto più ampio, che ci permetterà di stabilire una serie di significati del testo antico, al quale Cristo si è riferito. Oggi pertanto rifletteremo sul significato dell’originaria solitudine dell’uomo.

2. Lo spunto per tale riflessione ci viene dato direttamente dalle seguenti parole del Libro della Genesi: “Non è bene che l’uomo (maschio) sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile” (Gen 2,18). È Dio-Jahvè che pronunzia queste parole. Esse fanno parte del secondo racconto della creazione dell’uomo e provengono quindi dalla tradizione jahvista. Come abbiamo già ricordato in precedenza, è significativo che, quanto al testo jahvista, il racconto della creazione dell’uomo (maschio) sia un brano a sé (cf. Gen 2,7), che precede il racconto della creazione della prima donna (cf. Gen 2,21-22). È inoltre significativo che il primo uomo (“‘adam”), creato dalla “polvere del suolo”, soltanto dopo la creazione della prima donna venga definito come un “maschio” (“‘iš”).

Così, dunque, quando Dio-Jahvè pronunzia le parole circa la solitudine, le riferisce alla solitudine dell’“uomo” in quanto tale, e non soltanto a quella del maschio (Il testo ebraico chiama costantemente il primo uomo “ha’adam”, mentre il termine “‘iš” [“maschio”] viene introdotto soltanto quando emerge il confronto con la “‘iššâ” [“femmina”]. Solitario era quindi l’uomo senza riferimento al sesso. Nella traduzione in alcune lingue europee è difficile però esprimere questo concetto della Genesi, perché “uomo” e “maschio” vengono definiti, di solito, con un unico vocabolo: “homo”, “uomo”, “homme”, “hombre”, “man”.).

È difficile però, solo in base a questo fatto, andare troppo lontano nel trarre le conclusioni. Nondimeno il contesto completo di quella solitudine, di cui parla la Genesi 2,18, può convincerci che qui si tratti della solitudine dell’“uomo” (maschio e femmina) e non soltanto della solitudine dell’uomo-maschio, causata dalla mancanza della donna.

Sembra quindi, in base al contesto intero, che questa solitudine abbia due significati: uno che deriva dalla natura stessa dell’uomo, cioè dalla sua umanità (e ciò è evidente nel racconto di Genesi 2), e l’altro che deriva dal rapporto maschio-femmina, e ciò è evidente, in un certo modo, in base al primo significato. Una particolareggiata analisi della descrizione sembra confermarlo.

3. Il problema della solitudine si manifesta soltanto nel contesto del secondo racconto della creazione dell’uomo. Il primo racconto non conosce questo problema. Ivi l’uomo viene creato in un solo atto come “maschio e femmina” (“Dio creò l’uomo a sua immagine... maschio e femmina li creò”) (Gen 1,27). Il secondo racconto che, come abbiamo già menzionato, parla prima della creazione dell’uomo e soltanto dopo della creazione della donna dalla “costola” del maschio, concentra la nostra attenzione sul fatto che “l’uomo è solo” e ciò appare un fondamentale problema antropologico anteriore, in un certo senso, a quello posto dal fatto che tale uomo sia maschio e femmina.

Questo problema è anteriore non tanto nel senso cronologico, quanto nel senso esistenziale: esso è anteriore “per sua natura”. Tale si rivelerà anche il problema della solitudine dell’uomo dal punto di vista della teologia del corpo, se riusciremo a fare un’analisi approfondita del secondo racconto della creazione in Genesi 2.

4. L’affermazione di Dio-Jahvè: “Non è bene che l’uomo sia solo”, appare non soltanto nel contesto immediato della decisione di creare la donna (“gli voglio fare un aiuto che gli sia simile”), ma anche nel contesto più vasto di motivi e di circostanze, che spiegano più profondamente il senso della solitudine originaria dell’uomo. Il testo jahvista lega anzitutto la creazione dell’uomo col bisogno di “lavorare il suolo” (Gen 2,5), e ciò corrisponderebbe, nel primo racconto, alla vocazione di assoggettare e dominare la terra (cf. Gen 1,28). Poi, il secondo racconto della creazione parla della collocazione dell’uomo nel “giardino in Eden”, e in questo modo ci introduce nello stato della sua felicità originaria. Fino a questo momento l’uomo è oggetto dell’azione creatrice di Dio-Jahvè, il quale nello stesso tempo, come legislatore, stabilisce le condizioni della prima alleanza con l’uomo. Già attraverso ciò viene sottolineata la soggettività dell’uomo. Essa trova un’ulteriore espressione quando il Signore Dio “plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo (maschio), per vedere come li avrebbe chiamati” (Gen 2,19). Così dunque il primitivo significato della solitudine originaria dell’uomo viene definito in base ad uno specifico “test”, o ad un esame che l’uomo sostiene di fronte a Dio (e in certo modo anche di fronte a se stesso). Mediante tale “test”, l’uomo prende coscienza della propria superiorità, e cioè che non può essere messo alla pari con nessun’altra specie di esseri viventi sulla terra.

Infatti, come dice il testo, “in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome” (Gen 2,19). “Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche, ma – finisce l’autore – l’uomo (maschio) non trovò un aiuto che gli fosse simile” (Gen 2,19-20).

5. Tutta questa parte del testo è senza dubbio una preparazione al racconto della creazione della donna. Tuttavia essa possiede un suo profondo significato anche indipendentemente da questa creazione. Ecco, l’uomo creato si trova, fin dal primo momento della sua esistenza, di fronte a Dio quasi alla ricerca della propria entità; si potrebbe dire: alla ricerca della definizione di se stesso. Un contemporaneo direbbe: alla ricerca della propria “identità”. La constatazione che l’uomo “è solo” in mezzo al mondo visibile e, in particolare, tra gli esseri viventi, ha in questa ricerca un significato negativo, in quanto esprime ciò che egli “non è”.

Nondimeno la constatazione di non potersi essenzialmente identificare col mondo visibile degli altri esseri viventi (“animalia”) ha, nello stesso tempo, un aspetto positivo per questa ricerca primaria: anche se tale constatazione non è ancora una definizione completa, pur tuttavia costituisce uno dei suoi elementi. Se accettiamo la tradizione aristotelica nella logica e nell’antropologia, bisognerebbe definire quest’elemento come “genere prossimo” (“genus proximum”).

6. Il testo jahvista ci consente tuttavia di scoprire anche ulteriori elementi in quel mirabile brano, nel quale l’uomo si trova solo di fronte a Dio soprattutto per esprimere, attraverso una prima autodefinizione, la propria autoconoscenza, quale primitiva e fondamentale manifestazione di umanità. L’autoconoscenza va di pari passo con la conoscenza del mondo, di tutte le creature visibili, di tutti gli esseri viventi ai quali l’uomo ha dato il nome per affermare di fronte ad essi la propria diversità. Così dunque la coscienza rivela l’uomo come colui che possiede la facoltà conoscitiva rispetto al mondo visibile. Con questa conoscenza che lo fa uscire, in certo modo, al di fuori del proprio essere, in pari tempo l’uomo rivela sé a se stesso in tutta la peculiarità del suo essere. Egli non è soltanto essenzialmente e soggettivamente solo. Solitudine infatti significa anche soggettività dell’uomo, la quale si costituisce attraverso l’autoconoscenza. L’uomo è solo perché è “differente” dal mondo visibile, dal mondo degli esseri viventi. Analizzando il testo del Libro della Genesi siamo, in certo senso, testimoni di come l’uomo “si distingue” di fronte a Dio-Jahvè da tutto il mondo degli esseri viventi (“animalia”) col primo atto di autocoscienza, e di come pertanto si riveli a se stesso e insieme si affermi nel mondo visibile come “persona”. Quel processo delineato in modo così incisivo in Genesi 2,19-20, processo di ricerca di una definizione di sé, non porta soltanto ad indicare – riallacciandoci alla tradizione aristotelica – il “genus proximum”, che nel capitolo 2 della Genesi viene espresso con le parole: “ha dato il nome”, a cui corrisponde la “differentia” specifica che è, secondo la definizione di Aristotele, “noû, zoón noetikón”. Tale processo porta anche alla prima delineazione dell’essere umano come persona umana con la propria soggettività che la caratterizza.

Interrompiamo qui l’analisi del significato della originaria solitudine dell’uomo. La riprenderemo tra una settimana.

4. Legame tra innocenza originaria e redenzione operata da Cristo (Mercoledì, 26 Settembre 1979)

1. Cristo, rispondendo alla domanda sull’unità e indissolubilità del matrimonio, si è richiamato a ciò che sul tema del matrimonio è stato scritto nel Libro della Genesi. Nelle due precedenti nostre riflessioni abbiamo sottoposto ad analisi sia il cosiddetto testo elohista (Gen 1), sia quello jahvista (Gen 2). Oggi desideriamo trarre da queste analisi alcune conclusioni.

Quando Cristo si riferisce al “principio”, chiede ai suoi interlocutori di superare, in un certo senso, il confine che, nel Libro della Genesi, passa tra lo stato di innocenza originaria e quello di peccaminosità, iniziato con la caduta originale.

Simbolicamente si può legare questo confine con l’albero della conoscenza del bene e del male, che nel testo jahvista delimita due situazioni diametralmente opposte: la situazione dell’innocenza originaria e quella del peccato originale. Queste situazioni hanno una propria dimensione nell’uomo, nel suo intimo, nella sua conoscenza, coscienza, scelta e decisione, e tutto ciò in rapporto a Dio Creatore che, nel testo jahvista (Gen 2-3), è, al tempo stesso, il Dio dell’alleanza, della più antica alleanza del Creatore con la sua creatura, cioè con l’uomo. L’albero della conoscenza del bene e del male, come espressione e simbolo dell’alleanza con Dio infranta nel cuore dell’uomo, delimita e contrappone due situazioni e due stati diametralmente opposti: quello dell’innocenza originaria e quello del peccato originale, e insieme della peccaminosità ereditaria dell’uomo che ne deriva.

Tuttavia le parole di Cristo, che si riferiscono al “principio”, ci permettono di trovare nell’uomo una continuità essenziale e un legame fra questi due diversi stati o dimensioni dell’essere umano. Lo stato di peccato fa parte dell’“uomo storico”, sia di colui del quale leggiamo in Matteo 19 cioè dell’interlocutore di Cristo d’allora, sia pure di ogni altro potenziale o attuale interlocutore di tutti i tempi della storia, e quindi, naturalmente, anche dell’uomo di oggi. Quello stato però – lo stato “storico”, appunto – in ogni uomo, senza alcuna eccezione, affonda le radici nella sua propria “preistoria” teologica, che è lo stato dell’innocenza originaria.

2. Non si tratta qui di sola dialettica. Le leggi del conoscere rispondono a quelle dell’essere. È impossibile capire lo stato della peccaminosità “storica”, senza riferirsi o richiamarsi (e Cristo infatti vi si richiama) allo stato di originaria (in un certo senso “preistorica”) e fondamentale innocenza. Il sorgere quindi della peccaminosità come stato, come dimensione della esistenza umana è, sin dagli inizi, in rapporto con questa reale innocenza dell’uomo come stato originario e fondamentale, come dimensione dell’essere creato “a immagine di Dio”.

E così avviene non soltanto per il primo uomo, maschio e femmina quali “dramatis personae” e protagonisti delle vicende descritte nel testo jahvista dei capitoli 2 e 3 della Genesi, ma anche per l’intero percorso storico dell’esistenza umana. L’uomo storico è dunque, per così dire, radicato nella sua preistoria teologica rivelata; e perciò ogni punto della sua peccaminosità storica si spiega (sia per l’anima che per il corpo) col riferimento all’innocenza originaria. Si può dire che questo riferimento è “coeredità” del peccato, e proprio del peccato originale. Se questo peccato significa, in ogni uomo storico, uno stato di grazia perduta, allora esso comporta pure un riferimento a quella grazia, che era precisamente la grazia dell’innocenza originaria.

3. Quando Cristo, secondo il capitolo 19 di Matteo, si richiama al “principio”, con questa espressione egli non indica soltanto lo stato di innocenza originaria quale orizzonte perduto dell’esistenza umana nella storia. Alle parole, che egli pronunzia proprio con la sua bocca, abbiamo il diritto di attribuire contemporaneamente tutta l’eloquenza del mistero della redenzione. Infatti già nell’ambito dello stesso jahvista di Genesi 2 e 3, siamo testimoni di quando l’uomo, maschio e femmina, dopo aver rotto l’alleanza originaria col suo Creatore, riceve la prima promessa di redenzione nelle parole del cosiddetto Protoevangelo in Genesi 3,15 (Già la traduzione greca dell’Antico Testamento, quella dei Settanta, risalente circa al II secolo a. C. interpreta Genesi 3,15 nel senso messianico, applicando il pronome maschile “autòs” in riferimento al sostantivo neutro greco “sperma” [“semen” nella Volgata]. La traduzione giudaica continua questa interpretazione.

L’esegesi cristiana, cominciando da Sant’Ireneo [Adversus haereses, III, 23,7] vede questo testo come protoevangelo, che preannunzia la vittoria su Satana riportata da Gesù Cristo. Sebbene negli ultimi secoli gli studiosi della Sacra Scrittura abbiano diversamente interpretato questa pericope, ed alcuni di essi contestino l’interpretazione messianica, tuttavia negli ultimi tempi si ritorna ad essa sotto un aspetto un po’ diverso. L’autore jahvista unisce infatti la preistoria con la storia di Israele, che raggiunge il suo vertice nella dinastia messianica di Davide, la quale porterà a compimento le promesse di Genesi 3,15 [cf. 2Sam 7,12]. Il Nuovo Testamento ha illustrato il compimento della promessa nella stessa prospettiva messianica: Gesù è Messia, discendente di Davide [Rm 1,3; 2Tm 2,8], nato da donna [Gal 4,4], nuovo Adamo-Davide [1Cor 15], che deve regnare “finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi” [1Cor 15,25] E infine [Ap 12,1-10] presenta il compimento finale della profezia di Genesi 3,15, che pur non essendo un chiaro e immediato annunzio di Gesù, come Messia di Israele, conduce tuttavia a Lui attraverso la tradizione regale e messianica che unisce l’Antico e il Nuovo Testamento), e comincia a vivere nella prospettiva teologica della redenzione. Così dunque l’uomo “storico” sia l’interlocutore di Cristo, di quel tempo, di cui parla Matteo 19, sia l’uomo di oggi partecipa a questa prospettiva. Egli partecipa non soltanto alla storia della peccaminosità umana, come un soggetto ereditario e nello stesso tempo personale e irrepetibile di questa storia, ma partecipa pure alla storia della salvezza, anche qui come suo soggetto e concreatore. Egli è quindi non soltanto chiuso a causa della sua peccaminosità, riguardo all’innocenza originaria, ma è contemporaneamente aperto verso il mistero della redenzione, che si è compiuta in Cristo e attraverso Cristo. Paolo, autore della lettera ai Romani, esprime questa prospettiva della redenzione nella quale vive l’uomo “storico”, quando scrive: “...anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando... la redenzione del nostro corpo” (Rm 8,23). Non possiamo perdere di vista questa prospettiva mentre seguiamo le parole di Cristo che, nel suo colloquio sull’indissolubilità del matrimonio, fa ricorso al “principio”. Se quel “principio” indicasse solo la creazione dell’uomo come “maschio e femmina”, se – come già abbiamo accennato – conducesse gli interlocutori solo attraverso il confine dello stato di peccato dell’uomo fino all’innocenza originaria, e non aprisse contemporaneamente la prospettiva di una “redenzione del corpo” la risposta di Cristo non sarebbe affatto intesa in modo adeguato. Proprio questa prospettiva della redenzione del corpo garantisce la continuità e l’unità tra lo stato ereditario del peccato dell’uomo e la sua innocenza originaria, sebbene questa innocenza sia stata storicamente da lui perduta in modo irrimediabile. È anche evidente che Cristo ha il massimo diritto di rispondere alla domanda postagli dai dottori della Legge e dell’alleanza (come leggiamo in Matteo 19 e in Marco 10), nella prospettiva della redenzione sulla quale poggia l’alleanza stessa.

4. Se nel contesto sostanzialmente così delineato della teologia dell’uomo-corpo pensiamo al metodo delle analisi ulteriori circa la rivelazione del “principio”, in cui è essenziale il riferimento ai primi capitoli del Libro della Genesi, dobbiamo subito rivolgere la nostra attenzione ad un fattore che è particolarmente importante per l’interpretazione teologica: importante perché consiste nel rapporto tra rivelazione ed esperienza. Nell’interpretazione della rivelazione circa l’uomo, e soprattutto circa il corpo, per ragioni comprensibili dobbiamo riferirci all’esperienza, poiché l’uomo-corpo viene percepito da noi soprattutto nell’esperienza. Alla luce delle menzionate considerazioni fondamentali, abbiamo il pieno diritto di nutrire la convinzione che questa nostra esperienza “storica” deve, in un certo modo, fermarsi alle soglie dell’innocenza originaria dell’uomo, poiché nei suoi confronti rimane inadeguata. Tuttavia alla luce delle stesse considerazioni introduttive, dobbiamo arrivare alla convinzione che la nostra esperienza umana è, in questo caso, un mezzo in qualche modo legittimo per l’interpretazione teologica, ed è, in un certo senso, un indispensabile punto di riferimento, al quale dobbiamo richiamarci nell’interpretazione del “principio”. L’analisi più particolareggiata del testo ci permetterà di averne una visione più chiara.

5. Sembra che le parole della lettera ai Romani 8,23, or ora citata, rendano nel modo migliore l’orientamento delle nostre ricerche incentrate sulla rivelazione di quel “principio”, al quale si è riferito Cristo nel suo colloquio sull’indissolubilità del matrimonio (Mt 19; Mc 10). Tutte le successive analisi che a questo proposito saranno fatte in base ai primi capitoli della Genesi, rifletteranno quasi necessariamente la verità delle parole paoline: “Noi che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando... la redenzione del nostro corpo”. Se ci mettiamo in questa posizione – così profondamente concorde con l’esperienza (Parlando qui del rapporto tra l’“esperienza” e la “rivelazione”, anzi di una sorprendente convergenza tra loro, vogliamo soltanto constatare che l’uomo, nel suo attuale stato dell’esistere nel corpo, sperimenta molteplici limiti, sofferenze, passioni, debolezze ed infine la morte stessa, i quali, in pari tempo, riferiscono questo suo esistere nel corpo ad un altro e diverso stato o dimensione. Quando San Paolo scrive della “redenzione del corpo”, parla con il linguaggio della rivelazione; l’esperienza infatti non è in grado di cogliere questo contenuto, l’autore della Lettera ai Romani, 8,23 riprende tutto ciò che tanto a lui quanto, in certo modo, ad ogni uomo [indipendentemente dal suo rapporto con la rivelazione] è offerto attraverso l’esperienza dell’esistenza umana, che è un’esistenza nel corpo. Abbiamo quindi il diritto di parlare del rapporto tra l’esperienza e la rivelazione, anzi abbiamo il diritto di porre il problema della loro reciproca relazione, anche se per molti tra l’una e l’altra passa una linea di totale antitesi e di radicale antinomia. Questa linea, a loro parere, deve senz’altro essere tracciata tra la fede e la scienza, tra la teologia e la filosofia. Nel formulare tale punto di vista, vengono presi in considerazione piuttosto concetti astratti che non l’uomo quale soggetto vivo.) – il “principio” deve parlarci con la grande ricchezza di luce che proviene dalla rivelazione, alla quale desidera rispondere soprattutto la teologia. Il seguito delle analisi ci spiegherà perché e in quale senso questa deve essere teologia del corpo.

3. Nel secondo racconto della creazione la definizione soggettiva dell’uomo (Mercoledì, 19 Settembre 1979)

1. In riferimento alle parole di Cristo sul tema del matrimonio, in cui egli si richiama al “principio”, abbiamo rivolto la nostra attenzione, una settimana fa, al primo racconto della creazione dell’uomo nel Libro della Genesi (Gen 1) Oggi passeremo al secondo racconto il quale, poiché Dio vi è chiamato “Jahvè”, viene spesso definito “jahvista”.

Il secondo racconto della creazione dell’uomo (legato alla presentazione sia dell’innocenza e felicità originarie che della prima caduta) ha per sua natura un carattere diverso. Pur non volendo anticipare i particolari di questa narrazione – perché ci converrà richiamarli nelle ulteriori analisi – dobbiamo constatare che tutto il testo, nel formulare la verità sull’uomo, ci stupisce con la sua tipica profondità, diversa da quella del primo capitolo della Genesi. Si può dire che è una profondità di natura soprattutto soggettiva e quindi, in certo senso, psicologica. Il capitolo 2 della Genesi costituisce, in certo qual modo, la più antica descrizione e registrazione dell’auto-comprensione dell’uomo e, insieme al capitolo 3, è la prima testimonianza della coscienza umana. Con una approfondita riflessione su questo testo – attraverso tutta la forma arcaica della narrazione, che manifesta il suo primitivo carattere mitico (Se nel linguaggio del razionalismo del XIX secolo il termine “mito” indicava ciò che non si conteneva nella realtà, il prodotto di immaginazione [Wundt], o ciò che è irrazionale [Lévy-Bruhl], il secolo XX ha modificato la concezione del mito. L. Walk vede nel mito la filosofia naturale, primitiva e areligiosa; R. Otto lo considera strumento di conoscenza religiosa; per C. G. Jung invece il mito è manifestazione degli archetipi e l’espressione dell’“inconscio collettivo”, simbolo dei processi interiori. M. Eliade scopre nel mito la struttura della realtà che è inaccessibile all’indagine razionale ed empirica: il mito infatti trasforma l’evento in categoria e rende capaci di percepire la realtà trascendente; non è soltanto simbolo dei processi interiori [come afferma Jung], ma un atto autonomo e creativo dello spirito umano, mediante il quale si attua la rivelazione [cf. Traité d’histoire des religiones, Paris 1949, p. 363; Images et symboles, Paris 1952, pp. 199-235]. Secondo P. Tillich il mito è un simbolo, costituito dagli elementi della realtà per presentare l’assoluto e la trascendenza dell’essere, ai quali tende l’atto religioso. H. Schlier sottolinea che il mito non conosce i fatti storici e non ne ha bisogno, in quanto descrive ciò che è destino cosmico dell’uomo che è sempre tale e quale. Infine il mito tende a conoscere ciò che è inconoscibile.) – vi troviamo “in nucleo” quasi tutti gli elementi dell’analisi dell’uomo, ai quali è sensibile l’antropologia filosofica moderna e soprattutto contemporanea. Si potrebbe dire che Genesi 2 presenta la creazione dell’uomo specialmente nell’aspetto della sua soggettività.

Confrontando insieme ambedue i racconti, giungiamo alla convinzione che questa soggettività corrisponde all’oggettiva realtà dell’uomo creato “a immagine di Dio”. E anche questo fatto è – in un altro modo – importante per la teologia del corpo, come vedremo nelle analisi seguenti.

2. È significativo che il Cristo, nella sua risposta ai farisei in cui si richiama al “principio”, indica innanzitutto la creazione dell’uomo con riferimento a Genesi 1,27: “Il Creatore da principio li creò maschio e femmina”; soltanto in seguito cita il testo di Genesi 2,24. Le parole, che direttamente descrivono l’unità e indissolubilità del matrimonio, si trovano nell’immediato contesto del secondo racconto della creazione, il cui tratto caratteristico è la creazione separata della donna (cf. Gen 2,18-23), mentre il racconto della creazione del primo uomo (maschio) si trova in Genesi 2,5-7.

Questo primo essere umano la Bibbia lo chiama “uomo” (“‘adam”), mentre invece dal momento della creazione della prima donna, comincia a chiamarlo “maschio”, “‘is”, in relazione a “‘iššâ” (“femmina”, perché è stata tolta dal maschio = “‘iš”) (Quanto all’etimologia, non è escluso che il termine ebraico “‘iš” derivi da una radice che significa “forza” [“‘iš” oppure “‘wš”]; invece “‘iššâ” è legata ad una serie di termini semitici, il cui significato oscilla tra “femmina” e “moglie”. L’etimologia proposta dal testo biblico è di carattere popolare e serve a sottolineare l’unità della provenienza dell’uomo e della donna; ciò sembra confermato dall’assonanza di ambedue le voci.). Ed è anche significativo che, riferendosi a Genesi 2,24, Cristo non soltanto collega il “principio” col mistero della creazione, ma anche ci conduce, per così dire, al confine della primitiva innocenza dell’uomo e del peccato originale.

La seconda descrizione della creazione dell’uomo è stata fissata nel Libro della Genesi proprio in tale contesto. Vi leggiamo innanzitutto: “Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo. Allora l’uomo disse: “Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa. La si chiamerà donna perché dall’uomo è stata tolta” (Gen 2,22-23).

“Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne” (Gen 2,24).

“Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non provavano vergogna” (Gen 2,25).

3. In seguito, immediatamente dopo questi versetti, inizia Genesi 3, il racconto della prima caduta dell’uomo e della donna, collegato con l’albero misterioso, che già prima è stato chiamato “albero della conoscenza del bene e del male” (Gen 2,17). Con ciò emerge una situazione completamente nuova, essenzialmente diversa da quella precedente. L’albero della conoscenza del bene e del male è una linea di demarcazione tra le due situazioni originarie, di cui parla il libro della Genesi. La prima situazione è quella dell’innocenza originaria, in cui l’uomo (maschio e femmina) si trova quasi al di fuori della conoscenza del bene e del male, fino al momento in cui non trasgredisce la proibizione del Creatore e non mangia il frutto dell’albero della conoscenza. La seconda situazione, invece, è quella in cui l’uomo, dopo aver trasgredito il comando del Creatore per suggerimento dello spirito maligno simboleggiato dal serpente, si trova, in un certo modo, dentro la conoscenza del bene e del male. Questa seconda situazione determina lo stato di peccaminosità umana, contrapposto allo stato di innocenza primitiva.

Sebbene il testo jahvista sia nell’insieme molto conciso, basta però a differenziare e a contrapporre con chiarezza quelle due situazioni originarie. Parliamo qui di situazioni, avendo davanti agli occhi il racconto che è una descrizione di eventi. Nondimeno attraverso questa descrizione e tutti i suoi particolari, emerge la differenza essenziale tra lo stato di peccaminosità dell’uomo e quello della sua innocenza originaria (“Lo stesso linguaggio religioso richiede la trasposizione da “immagini” o piuttosto “modalità simboliche” a “modalità concettuali” di espressione. A prima vista questa trasposizione può sembrare un cambiamento puramente “estrinseco”... Il linguaggio simbolico sembra inadeguato a prendere la via del concetto per un motivo che è peculiare della cultura occidentale. In questa cultura il linguaggio religioso è sempre stato condizionato da un altro linguaggio, quello filosofico, che è il linguaggio concettuale “per eccellenza”... Se è vero che un vocabolario religioso è compreso solo in una comunità che lo interpreta e secondo una tradizione di interpretazione, è vero però anche che non esiste tradizione di interpretazione che non sia “mediata” da qualche concezione filosofica. Ecco che la parola “Dio”, che nei testi biblici riceve il suo significato dalla “convergenza” di diversi modi del discorso [racconti e profezie, testi di legislazione e letteratura sapienziale, proverbi ed inni], – vista, questa convergenza, sia come il punto di intersezione che come l’orizzonte sfuggente ad ogni e qualsiasi forma – dovette essere assorbita nello spazio concettuale, per essere reinterpretata nei termini dell’Assoluto filosofico, come primo motore, causa prima, “Actus essendi”, essere perfetto, ecc. Il nostro concetto di Dio appartiene quindi ad una onto-teologia, nella quale si organizza l’intera costellazione delle parole-chiave della semantica teologica, ma in una cornice di significati dettati dalla metafisica” [P. Ricœur, Ermeneutica biblica, Morcelliana, Brescia 1978, pp. 140-141; tit. orig.: Biblical Ermeneutics, Montana 1975].

La questione, se la riduzione metafisica esprima realmente il contenuto che nasconde in sé il linguaggio simbolico e metaforico, è un tema a parte.). La teologia sistematica scorgerà in queste due situazioni antitetiche due diversi stati della natura umana: “status naturae integrae” (stato di natura integra) e “status naturae lapsae” (stato di natura decaduta). Tutto ciò emerge da quel testo jahvista di Genesi 2 e 3, che racchiude in sé la più antica parola della rivelazione, ed evidentemente ha un significato fondamentale per la teologia dell’uomo e per la teologia del corpo.

4. Quando Cristo, riferendosi al “principio”, indirizza i suoi interlocutori alle parole scritte in Genesi 2,24, ordina loro, in certo senso, di oltrepassare il confine che, nel testo jahvista della Genesi, corre tra la prima e la seconda situazione dell’uomo. Egli non approva ciò che “per durezza del... cuore” Mosè ha permesso, e si richiama alle parole del primo ordinamento divino, che in questo testo è espressamente legato allo stato di innocenza originaria dell’uomo. Ciò significa che questo ordinamento non ha perduto il suo vigore, benché l’uomo abbia perso la primitiva innocenza. La risposta di Cristo è decisiva e senza equivoci. Perciò dobbiamo trarne le conclusioni normative, che hanno un significato essenziale non soltanto per l’etica, ma soprattutto per la teologia dell’uomo e per la teologia del corpo, la quale, come un momento particolare dell’antropologia teologica, si costituisce sul fondamento della parola di Dio che si rivela. Cercheremo di trarre tali conclusioni durante il prossimo incontro.

2. Nel primo racconto della creazione l’oggettiva definizione dell’uomo (Mercoledì, 12 Settembre 1979)

1 Mercoledì scorso abbiamo iniziato il ciclo di riflessioni sulla risposta che Cristo Signore diede ai suoi interlocutori circa la domanda sull’unità e indissolubilità del matrimonio. Gli interlocutori farisei, come ricordiamo, si sono appellati alla legge di Mosè; Cristo invece si è richiamato al “principio”, citando le parole del Libro della Genesi.

Il “principio”, in questo caso, riguarda ciò di cui tratta una delle prime pagine del Libro della Genesi. Se vogliamo fare un’analisi di questa realtà, dobbiamo senz’altro rivolgerci anzitutto al testo. Infatti le parole pronunziate da Cristo nel colloquio con i farisei, che il capo 19 di Matteo e il capo 10 di Marco ci hanno riportato, costituiscono un passo che a sua volta si inquadra in un contesto ben definito, senza il quale non possono essere né intese né giustamente interpretate.

Questo contesto è dato dalle parole; “Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e femmina...?” (Mt 19,4), e fa riferimento al cosiddetto primo racconto della creazione dell’uomo, inserito nel ciclo dei sette giorni della creazione del mondo (Gen 1,1-2.4). Invece, il contesto più prossimo alle altre parole di Cristo, tratte da Genesi 2,24, è il cosiddetto secondo racconto della creazione dell’uomo (Gen 2,5-25), ma indirettamente è tutto il terzo capitolo della Genesi. Il secondo racconto della creazione dell’uomo forma una unità concettuale e stilistica con la descrizione dell’innocenza originaria, della felicità dell’uomo ed anche della sua prima caduta. Data la specificità del contenuto espresso nelle parole di Cristo, prese da Genesi 2,24, si potrebbe anche includere nel contesto almeno la prima frase del capitolo quarto della Genesi, che tratta del concepimento e della nascita dell’uomo dai genitori terrestri. Così noi intendiamo fare nella presente analisi.

2. Dal punto di vista della critica biblica, bisogna subito ricordare che il primo racconto della creazione dell’uomo è cronologicamente posteriore al secondo. L’origine di quest’ultimo è molto più remota. Tale testo più antico si definisce come “jahvista”, perché per denominare Dio si serve del termine “Jahvè”. È difficile non restare impressionati dal fatto che l’immagine di Dio ivi presentata ha dei tratti antropomorfici abbastanza rilevanti (tra l’altro vi leggiamo infatti che “...il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue (Gen 2,7). In confronto a questa descrizione, il primo racconto, cioè proprio quello ritenuto cronologicamente più recente, è molto più maturo sia per quanto riguarda l’immagine di Dio, sia nella formulazione delle verità essenziali sull’uomo. Questo racconto proviene dalla tradizione sacerdotale e insieme “elohista”, da “Elohim”, termine da esso usato per denominare Dio.

3. Dato che in questa narrazione la creazione dell’uomo come maschio e femmina, alla quale si riferisce Gesù nella sua risposta secondo Matteo 19, è inserita nel ritmo dei sette giorni della creazione del mondo, le si potrebbe attribuire soprattutto un carattere cosmologico; l’uomo viene creato sulla terra e insieme al mondo visibile. Ma nello stesso tempo il Creatore gli ordina di soggiogare e dominare la terra (cf. Gen 1,28): egli è quindi posto al di sopra del mondo. Sebbene l’uomo sia così strettamente legato al mondo visibile, tuttavia la narrazione biblica non parla della sua somiglianza col resto delle creature, ma solamente con Dio (“Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò...” (Gen 1,27). Nel ciclo dei sette giorni della creazione è evidente una precisa gradualità (Parlando della materia non vivificata, l’autore biblico adopera differenti predicati, come “separò”, “chiamò”, “fece”, “pose”. Parlando invece degli esseri dotati di vita usa i termini “creò” e “benedisse”. Dio ordina loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi”. Questo ordine si riferisce sia agli animali, sia all’uomo, indicando che la corporalità è comune a loro [cf. Gen 1,27-28]. Tuttavia la creazione dell’uomo si distingue essenzialmente, nella descrizione biblica, dalle precedenti opere di Dio. Non soltanto è preceduta da una solenne introduzione, come se si trattasse di una deliberazione di Dio prima di questo atto importante, ma soprattutto l’eccezionale dignità dell’uomo viene messa in rilievo dalla “somiglianza” con Dio di cui è l’immagine. Creando la materia non vivificata Dio “separava”, agli animali ordina di essere fecondi e di moltiplicarsi, ma la differenza del sesso è sottolineata soltanto nei confronti dell’uomo [“maschio e femmina li creò”] benedicendo nello stesso tempo la loro fecondità, cioè il vincolo delle persone [Gen 1,27-28]; l’uomo invece non viene creato secondo una naturale successione, ma il Creatore sembra arrestarsi prima di chiamarlo all’esistenza, come se rientrasse in se stesso per prendere una decisione: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza...” (Gen 1,26).

4. Il livello di quel primo racconto della creazione dell’uomo, anche se cronologicamente posteriore, è soprattutto di carattere teologico. Ne è indice soprattutto la definizione dell’uomo sulla base del suo rapporto con Dio (“a immagine di Dio lo creò”), il che racchiude contemporaneamente l’affermazione dell’assoluta impossibilità di ridurre l’uomo al “mondo”. Già alla luce delle prime frasi della Bibbia, l’uomo non può essere né compreso né spiegato fino in fondo con le categorie desunte dal “mondo”, cioè dal complesso visibile dei corpi. Nonostante ciò anche l’uomo è corpo. Genesi 1,27 constata che questa verità essenziale circa l’uomo si riferisce tanto al maschio che alla femmina: “Dio creò l’uomo a sua immagine... maschio e femmina li creò” (Il testo originale dice: “Dio creò l’uomo [ha-adam – sostantivo collettivo: l’“umanità”?], a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschi [zakar – maschile] e femmina [uneqebah – femminile] li creò” [Gen 1,27]. Bisogna riconoscere che il primo racconto è conciso, libero da qualsiasi traccia di soggettivismo: contiene soltanto il fatto oggettivo e definisce la realtà oggettiva, sia quando parla della creazione dell’uomo, maschio e femmina, ad immagine di Dio, sia quando vi aggiunge poco dopo le parole della prima benedizione: “Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate”” (Gen 1,28).

5. Il primo racconto della creazione dell’uomo, che, come abbiamo constatato, è di indole teologica, nasconde in sé una potente carica metafisica. Non si dimentichi che proprio questo testo del Libro della Genesi è diventato la sorgente delle più profonde ispirazioni per i pensatori che hanno cercato di comprendere l’“essere” e l’“esistere” (forse soltanto il capitolo terzo del libro dell’Esodo può reggere il confronto con questo testo) (“Haec sublimis veritas”: “Io sono colui che sono” [Es 3,14] costituisce oggetto di riflessione di molti filosofi, incominciando da Sant’Agostino, il quale riteneva che Platone dovesse conoscere questo testo perché gli sembrava tanto vicino alle sue concezioni. La dottrina agostiniana della divina “essentialitas” ha esercitato, mediante Sant’Anselmo, un profondo influsso sulla teologia di Riccardo da S. Vittore, di Alessandro di Hales e di S. Bonaventura. “Pour passer de cette interprétation philosophique du texte de l’Exode à celle qu’allait proposer saint Thomas il fallait nécessairement franchir la distance qui sépare “l’être de l’essence” de “l’être de l’existence”. Les preuves thomistes de l’existence de Dieu l’ont franchie”.

Diversa è la posizione di Maestro Eckhart, che sulla base di questo testo attribuisce a Dio la “puritas essendi”: “est aliquid altius ente... ” [cf. E. Gilson, Le Thomisme, Paris 1944 [Vrin], pp. 122-127; E. Gilson, History of Christian Philosophy in the Middle Ages, London 1955 [Sheed and Ward], 810]). Nonostante alcune espressioni particolareggiate e plastiche del brano, l’uomo vi è definito prima di tutto nelle dimensioni dell’essere e dell’esistere (“esse”). È definito in modo più metafisico che fisico. Al mistero della sua creazione (“a immagine di Dio lo creò”) corrisponde la prospettiva della procreazione (“siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra”), di quel divenire nel mondo e nel tempo, di quel “fieri” che è necessariamente legato alla situazione metafisica della creazione: dell’essere contingente (“contingens”). Proprio in tale contesto metafisico della descrizione di Genesi 1, bisogna intendere l’entità del bene, cioè l’aspetto del valore. Infatti, questo aspetto torna nel ritmo di quasi tutti i giorni della creazione e raggiunge il culmine dopo la creazione dell’uomo: “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gen 1,31). Per cui si può dire con certezza che il primo capitolo della Genesi ha formato un punto inoppugnabile di riferimento e la solida base per una metafisica ed anche per un’antropologia e un’etica, secondo la quale “ens et bonum convertuntur”. Senz’altro, tutto ciò ha un suo significato anche per la teologia e soprattutto per la teologia del corpo.

6. A questo punto interrompiamo le nostre considerazioni. Tra una settimana ci occuperemo del secondo racconto della creazione, cioè di quello che, secondo i biblisti, è cronologicamente più antico. L’espressione “teologia del corpo”, or ora usata, merita una spiegazione più esatta, ma la rimandiamo ad un altro incontro. Dobbiamo prima cercare di approfondire quel passo del Libro della Genesi, al quale Cristo si è richiamato.

1. A colloquio con Cristo sui fondamenti della famiglia (Mercoledì, 5 Settembre 1979)

1. Da un certo tempo sono in corso i preparativi per la prossima assemblea ordinaria del Sinodo dei Vescovi, che si svolgerà a Roma nell’autunno dell’anno venturo. Il tema del Sinodo: “De muneribus familiae christianae” (Doveri della famiglia cristiana) concentra la nostra attenzione su tale comunità della vita umana e cristiana, che sin da principio è fondamentale. Proprio di questa espressione “da principio” si è servito il Signore Gesù nel colloquio sul matrimonio, riportato nel Vangelo di San Matteo e da quello di San Marco. Vogliamo chiederci che cosa significhi questa parola: “principio”. Vogliamo inoltre chiarire perché Cristo si richiami al “principio” appunto in quella circostanza e, pertanto, ci proponiamo una più precisa analisi del relativo testo della Sacra Scrittura.

2. Due volte, durante il colloquio con i farisei, che gli ponevano il quesito sulla indissolubilità del matrimonio, Gesù Cristo si è riferito al “principio”. Il colloquio si è svolto nel modo seguente: “...gli si avvicinarono alcuni farisei per metterlo alla prova e gli chiesero: “E lecito ad un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?”. Ed egli rispose: “Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e femmina e disse: Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola? Così che non sono più due, ma una carne sola. Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi”. Gli obiettarono: “Perché allora Mosè ha ordinato di darle l’atto di ripudio e di mandarla via?”. Rispose loro Gesù: “Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così” (Mt 19,3ss.; cf. Mc 10,2ss.).

Cristo non accetta la discussione al livello nel quale i suoi interlocutori cercano di introdurla, in certo senso non approva la dimensione che essi hanno cercato di dare al problema. Evita di impigliarsi nelle controversie giuridico-casistiche; e invece si richiama due volte al “principio”. Agendo così, fa chiaro riferimento alle relative parole del Libro della Genesi che anche i suoi interlocutori conoscono a memoria. Da quelle parole dell’antichissima rivelazione, Cristo trae la conclusione e il colloquio si chiude.

3. “Principio” significa quindi ciò di cui parla il Libro della Genesi. È dunque la Genesi 1,27 che Cristo cita, in forma riassuntiva: “Il Creatore da principio li creò maschio e femmina”, mentre il brano originario completo suona testualmente così: “Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò”. In seguito, il Maestro si richiama alla Genesi 2,24: “Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne”. Citando queste parole quasi “in extenso”, per intero, Cristo dà loro un ancor più esplicito significato normativo (dato che sarebbe ipotizzabile che nel Libro della Genesi suonino come affermazioni di fatto: “abbandonerà... si unirà... saranno una sola carne”). Il significato normativo è plausibile in quanto Cristo non si limita soltanto alla citazione stessa, ma aggiunge: “Così che non sono più due, ma una carne sola. Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi”. Quel “non lo separi” è determinante. Alla luce di questa parola di Cristo, la Genesi 2,24 enuncia il principio dell’unità e indissolubilità del matrimonio come il contenuto stesso della parola di Dio, espressa nella più antica rivelazione.

4. Si potrebbe a questo punto sostenere che il problema sia esaurito, che le parole di Gesù Cristo confermino l’eterna legge formulata e istituita da Dio da “principio” come la creazione dell’uomo. Potrebbe anche sembrare che il Maestro, nel confermare questa primordiale legge del Creatore, non faccia altro che stabilire esclusivamente il suo proprio senso normativo, richiamandosi all’autorità stessa del primo Legislatore. Tuttavia, quella espressione significativa: “da principio”, ripetuta due volte, induce chiaramente gli interlocutori a riflettere sul modo in cui nel mistero della creazione è stato plasmato l’uomo, appunto, come “maschio e femmina”, per capire correttamente il senso normativo delle parole della Genesi. E questo non è meno valido per gli interlocutori di oggi quanto non sia stato per quelli di allora. Pertanto, nel presente studio, considerando tutto ciò, dobbiamo metterci proprio nella posizione degli odierni interlocutori di Cristo.

5. Durante le successive riflessioni del mercoledì, nelle udienze generali, cercheremo, come odierni interlocutori di Cristo, di fermarci più a lungo sulle parole di San Matteo (Mt 19,3ss.). Per rispondere all’indicazione, che Cristo ha in esse racchiuso, cercheremo di addentrarci verso quel “principio”, al quale egli si è riferito in modo tanto significativo; e così seguiremo da lontano il gran lavoro, che su questo tema proprio adesso intraprendono i partecipanti al prossimo Sinodo dei Vescovi. Insieme a loro vi prendono parte numerosi gruppi di pastori e di laici, che si sentono particolarmente responsabili circa i compiti, che Cristo pone al matrimonio e alla famiglia cristiana; i compiti che egli ha posto sempre, e pone anche nella nostra epoca, nel mondo contemporaneo.

Il ciclo di riflessioni che iniziamo oggi, con l’intenzione di continuarlo durante i successivi incontri del mercoledì, ha anche, tra l’altro, come scopo di accompagnare, per così dire da lontano, i lavori preparatori al Sinodo, non toccandone però direttamente il tema, ma volgendo l’attenzione alle profonde radici, da cui questo tema scaturisce.